Ci sono spazi che è arduo circoscrivere entro un’unica vocazione.

Ambienti che dalle origini si mostrano avvezzi ad accogliere svariate forme di rappresentazione dell’agire umano e sociale.
Così è per questo luogo.

È Lavoro ed è Casa, è Tecnica e insieme Arte.

Come il Lavoro non prevarica gli affetti, così la Casa non è un vincolo per l’intrapresa.

Come la Tecnica non ostracizza la creatività, così l’Arte non costringe l’intelletto.

Tali apparenti antinomie si ricongiungono, si fondono senza attriti.

E donano la sensazione plastica di come uno spazio sia il frutto di chi lo vive, lo interpreta, lo esperisce.

Dunque una cantina dal sapore antico può, tra i secoli e tra i giorni, divenire palcoscenico di linguaggi diversi per origine geografica, formazione, cultura, forme espressive.

Questo luogo si è prestato a narrare le gesta di una famiglia imprenditoriale d’Irpinia che lungo tante generazioni ha agito, giorno dopo giorno, ricostruendo a posteriori un filo rosso di coerenza coi valori della propria terra.

È da questa convergenza che scaturisce, a un certo punto della storia, l’idea di integrare l’espressione artistica, che del contributo tecnico si avvale per esprimersi, nel percorso tipico delle tecniche, figlie di un sapere antico che sedimenta nei luoghi e nelle pratiche degli uomini e che si nutre, per manifestarsi, dell’inesauribile apporto della creatività dell’uomo.

Grandi interpreti del successo di questa impresa familiare hanno saputo riempire di contenuti questi ambienti, ma una figura in particolare ha donato la sintesi di cui oggi godiamo.

Antonio Mastroberardino, noto come l’uomo della tecnica per eccellenza tra i vari esponenti delle diverse generazioni di famiglia e oltre quei confini, è in realtà colui che più di ogni altro è vissuto animato dalla passione per il gusto del bello.

Ed è con lui che ho avviato questo percorso, negli anni Ottanta dello scorso secolo, di selezione, raccolta, esposizione di opere di diversi artisti negli ambienti, sempre integrati insieme, di lavoro e di casa Mastroberardino.

Tra le molte opere, alcune più significative per il senso che hanno avuto in questa nostra storia sono qui catalogate e presentate ai nostri amici in visita.

È ovviamente un percorso in costruzione, poiché la raccolta di opere d’arte non ha fine.

In questo pamphlet mi dedico a fornire pochi, sintetici dettagli per ciascuna di esse, lasciando poi all’animo di chi osserva il privilegio di decrittare quei messaggi e farli propri.

Opere


La cupola di Raffaele De Rosa

Olio su vari supporti, lino, carta di riso (diametro 363 cm, h. 57, superficie calotta 6,5 mq + 6,5 mq superficie vele, totale superficie circa 13 mq, 1999)

Raffaele De Rosa nel 1999 realizza un’opera di importanti dimensioni, installata su un supporto in ferro che la mantiene ancorata alla calotta retrostante. La scena delle nozze tra Arianna e la divinità del vino Dioniso o Bacco si ricollega allo stile pittorico dell’artista, che si esprime attraverso un universo visionario fatto di immagini evocative suggestive, luoghi e figure simboliche della tradizione narrativa e favolistica.
Raffaele De Rosa nasce a Podenzana, cresce artisticamente a Livorno, poi a Firenze. Dal 1994 prosegue la sua ricerca di immagini leggendarie, esponendo in mostre personali e rassegne in Italia e all’estero.
Una classica rappresentazione delle nozze tra Bacco e Arianna. Abbandono, disperazione e nuovo amore. Questi sono i temi di una delle storie mitologiche più romantiche: quella tra il Dio Dioniso (chiamato dai romani Bacco) e la dolce Arianna, figlia del re di Creta, Minosse.

La cupola di Patrizia Comand

Olio (diametro 262 cm, superficie circa 5,4 mq)

Patrizia Comand, di origine milanese, nel periodo in cui si incontra con Antonio Mastroberardino si sta dedicando al tema dell’acrobazia. L’acrobata, nella visione dell’artista, è colui che vince il peso del proprio corpo, dalle forme tondeggianti a dispetto dell’agilità dei movimenti. La rappresentazione è metafora del continuo rischio di vivere: la vita come rischio, l’ineluttabilità della caduta nell’incedere del tempo che non preclude il fisico godimento dell’essere, il piacere di sentirsi corpo.
L’opera, realizzata appositamente per l’installazione nel caveau della famiglia Mastroberardino, si inserisce in maniera pungente nella storicità del luogo, in un affascinante gioco di contrasti.

La cupola di Maria Micozzi

Olio su vari supporti (diametro 363 cm, h. 57, superficie calotta 6,5 mq + 6,5 mq superficie vele, totale superficie circa 13 mq, 1999)

Raffigura le forze primarie della natura espresse nella fertilità della terra, con la rappresentazione del corpo femminile che si concentra sul ventre, e la testa del toro con lunghe corna arcuate a rappresentare la forza procreatrice umana. Dall’unione delle ancestrali forze in gioco si rinnova, per l’eternità, il mistero della vita rappresentato dalla metafora del rinnovarsi, anno dopo anno, della vite che superata la stasi del freddo inverno torna a dar sostegno ai nuovi tralci.
Le figure senza testa, che ritornano nel percorso espressivo dell’artista, simboleggiano il taglio del pensiero, del ragionamento, delle passioni.
Nell’opera di Maria Micozzi materiali diversi, immagini figurative, immagini astratte, geometrie, convergono verso la coesistenza di contrasti, dissonanze che sviluppano il tema della complessità. La scena è dominata da corpi femminili plastici, erotici e sensuali. Gli elementi simbolici che compongono l’assieme sono disposti in maniera frammentaria, si pongono in relazione tra loro dando luogo a un linguaggio.
Quest’opera è stata realizzata su supporti in pelle e materiali vari.
Maria Micozzi, originaria di Tolentino, dopo studi in campo neuropsicologico, psicoanalitico, epistemologico, si dedica alla pittura e alla scultura a partire dagli anni ’80. Sue opere sono in musei pubblici e privati in Italia e all’estero.

Incisione di Eugen Drăguţescu

(cm 34x24, 1974)

Drăguţescu fu pittore romeno naturalizzato italiano (Iaşi, Romania, 1914 - Roma 1993). Studiò a Bucarest e poi a Roma, dove si trasferì assumendo nel 1964 la cittadinanza italiana. Fu amico di Giuseppe Ungaretti e disegnò ritratti di personalità di spicco come Giovanni Papini, Eugenio Montale, Dino Buzzati, Ennio Francia, Constantin Brâncuși, Ana Blandiana.
Notevoli i disegni e le incisioni, di una nervosa sensibilità volta a individuare sottilmente i più svariati soggetti, spesso ritratti, scene di vita cittadina e religiosa. Alcune sue opere sono conservate ad Assisi e in varie collezioni pubbliche e private in Italia e all'estero.
Durante una visita presso casa Mastroberardino entrò in contatto con la vibrante passione di Antonio Mastroberardino, al quale volle dedicare un’incisione riproducente uno scorcio del labirinto delle grotte di affinamento situate nel cuore delle cantine di famiglia, che furono impiegate come rifugio anti-bombardamento nel 1943.
L’opera, del 1974, è esposta nel palazzo di famiglia.

Baccanale III di Doina Botez

Olio su tela (cm 100x120, 1997)

Questo dipinto è il terzo del trittico inserito nel ciclo tematico “Il colore di Dioniso” realizzato tra il 1993 e il 1998.
Due di queste tre opere fanno parte della collezione di Casa Mastroberardino.
La terza, secondo le ultime informazioni disponibili, si trova presso un collezionista tedesco.

Baccanale II di Doina Botez

Olio su tela (cm 120x100, 1997)

Questo dipinto, insieme al “Baccanale III”, fa parte di un trittico inserito in un ciclo tematico dal titolo “Il colore di Dioniso” realizzato tra il 1993 e il 1998, ove l’artista si interroga sul rapporto tra Dioniso e la nostra quotidianità.
Nell’antica Grecia il vino simboleggiava il sangue di Dioniso e rappresentava la bevanda dell’immortalità.
L’interiorità dell’artista si dibatte in questi tratti nel complesso e lacerante dilemma fra apollineo e dionisiaco.

“Vite – Vita”, mosaico di Felice Nittolo

Mosaico (cm 185 x 110, 2001)

L’opera Vite-Vita nasce dalla simbologia della Vite e della Vita, così strettamente legate alla storia di questo luogo e alla particolare attività della famiglia Mastroberardino, il cui logo dorato emerge dalla pianta Vite e Vita.
All’interno di una cornice ondulata che ricorda alcuni pavimenti dei mosaici Romani, volutamente citati da Nittolo per la vicinanza di questo luogo al famoso sito Archeologico Abellinum, si erge e si cala una pianta di vite ricca di lucenti grappoli d’uva.
Un prato collinare realizzato in tipici smalti in pasta vitrea insieme a brillanti tessere d’oro sapientemente collocate cattura lo sguardo dell’osservatore mettendo in evidenza la particolare sensibilità dell’artista che ha saputo cogliere la luce quale caratteristica dell’opera.
Nittolo ha realizzato l’opera tagliando le tessere manualmente una alla volta, così come un pittore realizza l’opera pennellata dopo pennellata. Su una malta appositamente preparata, le tessere, ora in pasta vitrea, ora lapidee, arricchite da oro (lo stesso usato 1500 anni fa nei mosaici di Ravenna) sono state collocate in modo che ognuna dialoghi con le altre e tutte rimandano un messaggio di luce e di storia.
Irpino di nascita, ravennate per amore del mosaico, Felice Nittolo è artista innovatore e sperimentatore dell’Arte Musiva contemporanea.

“The Tissue of Time”, Coderch & Malavia

Statua in bronzo (cm 114x46x31, 2020)

L’opera in bronzo entra nella collezione Mastroberardino nel settembre 2020, per volontà di Piero Mastroberardino.
The Tissue of Time, è la rivisitazione operata dagli scultori Coderch & Malavia del mito di Penelope che attende il ritorno di Ulisse intrecciando e disfacendo la sua tela. Questa Penelope è emozione annodata in un istante. Gli artisti colgono in lei una parte della loro riflessione sulla bellezza, imprigionata in un frammento. Ferma sul piedistallo ella offre lo sguardo con intrigante sensualità, avvolta nella tela che fluisce fra le sue mani come un tempo interminabile.
Gli artisti Joan Coderch e Javier Malavia, di origine spagnola, dopo una serie di esperienze individuali iniziano a collaborare nel 2015 affascinati dalla scultura figurativa. Hanno partecipato a numerose esibizioni e mostre individuali e collettive.

“Percorsi della memoria”, di Aldo Melillo

Bassorilievo in bronzo (cm 126x90, 2001)

L’opera, realizzata nel 2001 per volontà di Antonio Mastroberardino ad opera dell’artista irpino Aldo Melillo, consiste in un bassorilievo in bronzo che riproduce scene di lavorazione della vendemmia in vigna e in cantina.
Dedicata alla storia secolare della famiglia Mastroberardino, dispone in primo piano, sulla sinistra seduto un personaggio che riproduce le sembianze di Angelo Mastroberardino (1850-1914), al quale poggia amorevolmente la mano sulla spalla il figlio Michele Mastroberardino (1886-1945). Quest’ultimo tiene la mano di un fanciullo, che nell’idea dell’artista raffigura il committente, Antonio Mastroberardino (1928-2014).
In testa all’opera, al centro, è riprodotto lo storico crest di famiglia Mastroberardino.

“Le nozze di Arianna”, cupola di Doina Botez

Olio su vari supporti (diametro 363 cm, h. 57, superficie calotta 6,5 mq + 6,5 mq superficie vele, totale superficie circa 13 mq, 2000)

Il dipinto fu commissionato da Antonio e Piero Mastroberardino alla fine degli anni Novanta e completato nel 2000.
L’opera monumentale raffigura un baccanale con personaggi e simboli tipici del corteo dionisiaco, legati alla vite, al vino, alla prosperità, ai festeggiamenti.
Ricca di colori e forme, torna a parlare di Dioniso, l’altro nome di Bacco, antico Dio greco della vegetazione, la linfa vitale che scorre nelle piante. In seguito è identificato come Dio dell’estasi, del vino, della sensualità e della libertà e del potere delle passioni: l’essenza della vita nel suo scorrere infinito e selvaggio.
Nell’antica Grecia il vino era anche il simbolo del sangue di Dioniso e per questo motivo era ritenuto donare l’immortalità.
Peculiare è la firma dell’artista, apposta riproducendo il proprio volto inserito nel corpo di un felino su un’ala del dipinto.
L’opera orna una delle cupole delle grotte di affinamento della cantina d’arte di famiglia Mastroberardino.
L’artista, Doina Botez, è pittrice di chiara derivazione espressionista. Nata a Bucarest nel 1951, dal 1989 si è trasferita a Roma.

Il satiro danzante

Statua in bronzo (altezza cm 79)

A dare il benvenuto al visitatore, all’avvio del percorso, è la figura del satiro danzante, riproduzione dell’opera che ornava l’impluvium della casa del Fauno dell’antica Pompei, il cui originale è oggi in esposizione presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
È realizzata in bronzo con l’antico metodo della fusione a cera persa.
La statua, realizzata interamente a mano in modo artigianale, rappresenta una figura maschile nuda, barbuta, con la testa rovesciata all’indietro e lo sguardo rivolto al cielo, chioma fluente a ciocche abbondanti, in atto di accennare, in punta di piedi, un passo di danza. Elementi quali le corna di caprone poste sul capo e la presenza della coda suggeriscono che si tratti di un Fauno, o meglio di un Satiro in preda a ebbrezza bacchica o un’estasi religiosa.
Da un punto di vista tecnico, magistrale è la resa della muscolatura, estremamente sinuosa; la raffinatezza dell’esecuzione fa supporre che l’opera sia attribuibile a un centro di produzione ellenistico, verosimilmente alessandrino.

Dipinto di Salvatore Fiume

Olio (cm 76 x 63, 1975)

A metà degli anni Settanta la celebre rivista “La Domenica del Corriere” annuncia una iniziativa che avrebbe anticipato un importante filone dei decenni successivi, all’insegna dell’abbinamento tra vino e arte.
Nel fascicolo 50 del 9 dicembre 1976 la redazione presenta sei “Vini d’Autore”, segnalando di aver selezionato sei tra i migliori vini d’Italia e di averne “affidato l’interpretazione a grandi pittori: così sono nate le splendide etichette che potete ammirare in questo servizio…”.
Una delle sei opere è dedicata al Taurasi di casa Mastroberardino, e viene così descritta: “Questa libera donna vendemmiatrice di Salvatore Fiume che troneggia disinvolta su un somaro sembra una dea barbara, ha qualcosa di mitologico, com’è appunto il vino che rappresenta, il Taurasi di Atripalda, vino ellenico che risale ai tempi della Magna Grecia e che ha conservato una piccolissima area di produzione nell’entroterra avellinese. Sono poche viti vecchie e quasi archeologiche sopravvissute all’abbandono delle campagne.”
Salvatore Fiume (1915-1997), di origine siciliana, ricorda il Taurasi “come un sogno d’infanzia, un vino sacro che si stappava in famiglia solo nelle grandi occasioni”.
Quel dipinto, dopo l’edizione del Taurasi della vendemmia 1972, fu utilizzato come simbolo di alcune edizioni speciali in tiratura limitata e in grandi formati, come le riserve del Taurasi in 3 litri della vendemmia 1973 e della leggendaria 1977.

Il tondo di Raffaele De Rosa

Olio su tela (cm 120 x 120)

L’artista livornese, prima di dar corso alla preparazione della cupola posta nel primo incrocio del labirinto delle grotte di casa Mastroberardino, realizzò per la famiglia Mastroberardino una prova d’autore, olio su tela, in cui pone le principali figure che comporranno il corteo nuziale di Bacco e Arianna nell’opera definitiva del 1999.
Il tondo, per cura dei dettagli, cromatismi, plasticità delle figure appare tutt’altro che un bozzetto, piuttosto un’opera compiuta.

Bozzetto di Doina Botez

(cm 72 x 72)

In sala degustazione è esposto l’originale di un bozzetto dipinto dall’artista Doina Botez durante la gara per l’aggiudicazione dell’opera da collocare nella terza cupola delle grotte di affinamento. Nel quadro la pittrice studia le forme e gli spazi, testa accostamenti cromatici dai quali poi si discosterà in buona parte nella realizzazione finale, fornendo una chiave di lettura originale dei temi che svilupperà nel dipinto intitolato “Le nozze di Arianna”.

2 pale in legno di Maria Micozzi

Olio (2 elementi, ciascuno da cm 50x74)

In nicchie scavate nelle pareti della sala degustazione sono esposti due dipinti su pale in legno realizzati dall’artista Maria Micozzi durante le fasi di studio propedeutiche alla realizzazione del grande dipinto posto sotto la cupola centrale delle grotte di affinamento.
Vi sono riprodotte due figure composte dall’unione tra i corpi della donna e del toro, in diverse fogge, ad anticipare il tema che viene poi sviluppato nel dipinto principale, ovvero la fertilità nella congiunzione tra la grazia del primo e la potenza del secondo.
Di tali due opere l’artista realizzò anche bassorilievi che furono utilizzati per la realizzazione di stampi per la produzione di contenitori in vetro cavo destinati all’affinamento di un vino di gran pregio, denominato Naturalis Historia.

“Italo Calvino. Le città invisibili.” di Raffaele De Rosa

Olio su tela (cm 79 x 140, 1994)

Un gioco infinito di incastri che non può e non deve concludersi, un mosaico di trame geometriche che dà forma a labirinti che continuamente si ripetono dando vita ad un universo visionario di luoghi e personaggi che caratterizza tutta l’opera di Raffaele De Rosa.
L’opera rientra nella trilogia lucchese dell’artista, intitolata “Ho interpretato Calvino ed Eco per raccontarvi una favola mia”.
Ne Le città invisibili Calvino dice: “La città è l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Riesce facile a molti accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Le città sono anche sogni. Tutto l’immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure un suo rovescio o una paura. Le città sono costruite da desideri e paure anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli e ogni cosa ne nasconde un’altra. È giusto interrogarci su cos’è, su cosa dovrebbe essere la città per noi. E se la megalopoli non significhi proprio la fine della città o del suo contrario”.


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